Biografia - giuseppegreco

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Biografia

Si ha l'impressione, talvolta, che l'Umanesimo sia passato invano, se si riesce a dare per scontato che le opere di un artista siano l'unica cosa che conta, più dell'artista stesso, dell'uomo. Ciò è vero solamente in parte, solo ad uno sguardo superficiale; in realtà la vita di ogni vero artista è nelle sue opere. La necessità interiore e l'abilità, che sovrintendono alla nascita di un'opera, appartengono all'esperienza globale dell'uomo che dedica se stesso alla ricerca di una forma che ne esprima la ragione profonda ed unificante. Giuseppe Greco è interamente nelle sue opere, la sua scienza è venuta da una vita vissuta affrontando fatiche e scoperte con la volontà di farne un tesoro, una risorsa di energia e di conoscenza.

Giuseppe Greco nasce in Sicilia, a Naro, nel 1944. Nasce in prossimità di Agrigento, della Valle dei templi, nel cuore della Magna Grecia. Il suo orizzonte, ciò che vede il suo sguardo di ragazzo, è l'assoluto di quella luce, di quello spazio solare dove la chiarezza è evidenza di forma e di pensiero. In quei luoghi la perfezione è di casa, sta nel calcolo aureo delle misure, nei rapporti e nelle proporzioni che fissano l'immutabile della forma esponendola alla luce, rivelandola. Alla base di quelle forme, matrice dell'architettura ma anche della scultura, è la colonna. Figlia dell'albero e dell'uomo, simulacro di Hera che, eretta, tiene l'Olimpo e la terra uniti, la colonna è un alto cilindro rotondo, convesso, modellato da una corona di concavi nelle scanalature; è, già, un modello di unione armonica dei contrari.

Da questi luoghi, da questa luce delle forme visibili, pensate dall'uomo in armonia con la natura, "sfera nella sfera", Giuseppe Greco emigra, ancora molto giovane, per il grande Nord, per la Germania. Certo si tratta di un altro mondo: è il mondo dell'altra parte. In esso avviene l'incontro con il destino adulto del fare. L'esperienza del lavoro avviene nel modo più scoperto, più duro, senza lenitivi, né mistificazioni. Il lavoro rivela all'uomo ciò che il suo corpo è in grado di fare e di sopportare, ciò che riesce ad ottenere con la volontà e la determinazione. Anche l'arte è un lavoro, impegnativo, faticoso, che vede all'opera tutto l'uomo, per intero.
Giuseppe Greco incomincia per proprio conto a lavorare il legno, a fare piccole sculture per diletto, per necessità personale. Il lavoro, che conosce nel suo aspetto più duro, inesorabile, può essere anche emozione profonda se ciò che esce dalle proprie mani è una forma che rivela se stessi. È un lavoro che dà sollievo allo spirito, è il gioco che matura, l'intuizione che si volge ad immaginare l'esistenza della verità.
Giuseppe Greco ora studia per imparare l'arte: pittura, scultura, ceramica, mosaico. È all'Accademia delle Belle Arti di Stoccarda; poi è a Engelberg con gli artisti Paulsen, Link, Mothes. Incontra l'Antroposofia. L'arte e l'Antroposofia diventano un'unica ragione profonda di lavoro e di vita. La strada ora è chiara. Nel 1979 si iscrive all'Accademia delle Belle Arti di Alanus e vi rimane sino al 1984. Lavora con Heussler, Manche, Von Bonin, Ogilvi ed inizia ad esporre.
Il rapporto con l'arte non ha dunque attraversato le strade ortodosse della formazione scolastica, l'arte non è stata, per Giuseppe Greco, lezione teorica ma esperienza diretta, meditazione sensibile: il testo è la tecnica, cioè il modo della trasformazione della materia in forma. Non la Storia dell'Arte ma la Filosofia dell'Arte, è, per lui, levatrice delle forme, ragione delle conoscenze più profonde.
Giuseppe Greco entra con passione e perseveranza, come per un amore o per un destino, nell'esperienza totale dell'artista. L'arte gli appare come un modo, il suo, per realizzare un processo di conoscenza più vasto, quello della Scuola Antroposofica. L'Antroposofia è il suo secondo Mediterraneo, non avuto in sorte, ma scelto da uomo, libero e consapevole. Conosce per istinto il mondo dell'Armonia, la relazione euritmica che tiene legati i contrari. La sua particolare Armonia tiene uniti il Sud e il Nord, l'orizzonte e la vetta, la luce e l'ombra, il convesso e il concavo. Queste polarità sono nel suo animo e nella sua esperienza sensoriale, egli ne ha conoscenza, attraversano la sua vita. La luce e il calore mediterraneo furono la madre, la sfera che si espande e genera; i rigori del Nord furono la legge del padre, l'uomo che impara a pensare e a colpire, portando la forma nella materia.

Greco conosce Beuys; più volte ha modo di assistere alle sue lezioni-happenings all'Accademia di Dusseldorf. Ne coglie il carisma rivoluzionario, avverte l'eco dirompente delle sue azioni, ma la sua arte gli è estranea perché il furor di Beuys è esterno al mondo delle forme, è diretto alla mente degli uomini, ai loro comportamenti sociali. Per Greco il luogo dell'artista è interno all'universo dell'arte, laddove la materia genera la forma avendo per compagno il desiderio di scoprirne le leggi, le verità segrete e di portarle ad evidenza sensibile.
Nelle opere di Giuseppe Greco la cultura antroposofica entra come 'fondamentale', come quel punto di equilibrio che egli cerca e da cui procede daccapo, ogni volta, opera dopo opera. L'Antroposofia rende la sua ricerca più ricca, più motivata, dotata di un respiro universale, ma non ne limita l'autonomia artistica: le opere di Greco non sono dimostrative, sono opere d'arte, appartengono alla storia dell'arte, alla storia dell'uomo e delle sua conoscenza attraverso la creazione di forme.

Dopo Duchamp ci sono almeno due modi di intendere la scultura: l'uno mette all'opera, prevalentemente, l'ingegno intellettuale, l'altro l'ingegno plastico. Nel primo caso il potere estetico di conoscenza passa attraverso la scelta e la combinazione di materiali finiti, esistenti prima e al di fuori del movente artistico; nel secondo caso si manifesta nell'invenzione di una 'figura' tridimensionale, ottenuta attraverso un processo volontario di nascita di una forma.

Il principio interno a questa seconda linea è la trasformazione della materia manipolata. Giuseppe Greco usa la materia più docile e più elementare: la terra, la creta. Con questa materia prima e primaria, esplora le leggi della forma plastica; cioè di una forma materiale inserita in una forma più vasta e non visibile che è lo spazio. Il punto di partenza è un 'fondamentale' teorico e simbolico: il punto plastico, in altre parole, la sfera. Non è semplicemente per un'intima conformità, oggettiva e metaforica, alla rotondità della terra - «sfera nella sfera» (Cardinale da Cusa) - che l'artista lavora sul tema della sfericità, ma perché essa è l'elemento plastico per eccellenza, è la totalità del convesso che tende ad espandersi nell'aria. Verso l'alto incontrerà una sempre minor resistenza da parte dello spazio e una sempre maggior coesione della propria sostanza sino a raggiungere la perfetta durezza dei cristalli e dove, peraltro, ha termine l'identità organica, modellabile, della massa. Verso il basso la rotondità è destinata a mutarsi in concavo, ad assottigliarsi sotto la pressione esercitata dalla colonna dello spazio alto, sovrastante, sino a ridursi al massimo concavo del calco, del cavo, della ciotola. La massa di materia viene premuta e, nel ridursi, si indurisce: piano piano il suo posto è occupato dal vuoto. Il processo di pressione e di svuotamento è il più immateriale, consente al farsi spazio della forza interiore, elimina il 'grezzo' della materia, la rotondità della forma. Per Giuseppe Greco il 'grezzo' della materia - come egli stesso lo definisce - non è la sostanza secreta dall'anima organica della natura, ciò che rende conto della fisicità costituente della materia secondo Beuys, bensì la gravità plastica della massa, il rumore del corpo materiale in espansione, precondizione alla modellabilità: è la 'forma' in quanto volontà di evoluzione e di esposizione all'aria e alla vista. Beuys stabilisce un contatto tra due polarità zenitali: da un lato la 'bassa', ed eterna, materialità del corpo della natura (non delle sue forme e dei nostri appetiti estetici a loro riguardo), e dall'altro la concettualità demiurgica,
messianica che la santifica, opponendola alle alienazioni senz'anima e senza materia dei tempi moderni. Giuseppe Greco lavora, invece, sulle proprietà della scultura come operare specifico che forgia la materia sino alle conseguenze più estreme, in grado cioè di indurvi una dinamica di spiritualità. Egli lavora sull'armonia; lavora sull'incontro tra la materia evidente e lo spazio invisibile. L'armonia, secondo gli antichi, proveniva dalla coincidenza dei contrari, era l'unione degli opposti. Giuseppe Greco cerca di scoprire, da scultore, il mistero (e la meraviglia) della trasformazione di una forma nel suo contrario. Una lunga concentrazione - così come si conviene ai veri artisti - una perseveranza ossessiva puntata sulla verità, lo attira verso un punto, verso il punto in cui avviene il capovolgimento. Quel punto è il luogo invisibile della massima quiete, della morte temporanea, della caduta improvvisa di ogni tensione. Tutto è, per un istante, sospeso. Questo punto - questo istante - non è percepibile in sé, non si può rappresentare, ma ad esso si può pervenire nel corso di un processo formale. Solamente l'arte lo può mostrare nel corpo di una forma astratta. Per questo l'opera «Leggi plastiche», tradotta nel bronzo, è così assoluta, unica. L'artista potrebbe aver impiegato per essa, anche tutto il tempo della sua vita, come un personaggio di Borges. Un'opera unica, perché uniche sono le leggi che la governano e di cui essa è l'estrema sintesi consentita alla realtà tangibile di un corpo plastico.
Ciò che muove l'artista, dal nostro punto di vista, interno alla storia dell'arte, è l'osservazione delle proprietà, dei caratteri della natura plastica della scultura: essa appare come un insieme accordato di forme concave e convesse. A ben vedere il modellato si può ridurre a questi fondamenti plastici: è, al fine, una questione di concavi e convessi. Prendiamo pure le sculture più eccelse di Michelangelo, il suo naturalismo titanico, cosmico; oppure quelle più primitive di Wiligelmo, il balbettio (o l'urlo) della materia che sta per nascere alla figura. È pur sempre un colpo o una pressione, un attacco che arriva dall'esterno, dallo spazio fuori e intorno, a produrre sulla massa la rientranza concava che affonda l'ombra e porge alla luce il pieno. La materia incassa, si flette, si fa cava. Omero usava il termine glaphyros, che significa «cavo», per indicare sia le navi che le grotte; poi quello stesso termine passò ad indicare il trattamento della superficie« ... O l'incisione asciutta del segno, o la superficie compatta e vibrante: questo era desiderabile, e in entrambi i casi da raggiungere togliendo, rastremando il materiale. L'epidermide delle statue greche si distacca con tanta nettezza dal circostante perché è scavata nell'aria ... » (R. Calasso).
Il concavo ha inizio in un punto preciso del convesso, laddove abbandona il pendio del pieno per ripiegare verso l'interno: dall'«aria» circostante è arrivato il colpo, l'ordine del mutamento. Quando l'andamento del concavo muterà nuovamente corso per ribaltarsi nel suo contrario, questo si concluderà, a sua volta, in un altro spigolo, minuscolo promontorio, vetta di passaggio, dosso di virata per caduta, senza energia, in asse con il primo, a sé corrispondente. La specularità è assoluta: il «punto» sta esattamente nello scambio. Ma la scultura non conosce "punti", non conosce "istanti". Conosce estensioni e processi. Immaginiamo Giuseppe Greco intento a modellare premendo, plasmando a lungo, di continuo sino a pervenire allo stato dell'equilibrio nella relazione plastica tra due movimenti opposti.

Le «leggi» hanno una natura astratta ed assoluta ma è la natura concreta della materia modellabile che le rende operanti. Le rende operanti ed evolutive. Non sono pochi né sconosciuti gli artisti del nostro secolo che hanno lavorato su aree di riflessione analoghe, interne cioè ai principi organici delle forme plastiche: da Arp a Viani solo per fare due nomi. Ma in Greco è la legge stessa a diventare il tema della scultura. Egli rappresenta la visibilità della legge, non della sua applicazione; il suo manifestarsi anche in materiali diversi come il legno, il rame. Il processo è diretto: Greco non assapora i frutti della legge in una figura in cui si possano riconoscere in funzione, nemmeno più in quello del corpo umano, soggetto per eccellenza dell'unione feconda tra natura e scultura. Greco si inoltra alla latitudine dei «principi occulti»: «Nulla è più seducente - e nulla, in certi casi è meglio fondato - del mostrare le forme sottomesse ad una logica interna che le organizza. Come, sotto l'archetto, la sabbia sparsa sopra una lastra vibrante si sposta e si dispone secondo il disegno di varie figure che si accordano con simmetria, così un principio occulto, più forte e più rigoroso d'ogni fantasia inventiva, richiama l'una all'altra le forme che si generano per scissiparità, per spostamenti di tonica, per corrispondenza» (H. Focillon).

L'evoluzione del principio dell'inversione della forma convessa in concava, il ribaltamento della massa che si riduce a cavità, il mutamento dell'andamento plastico nel suo opposto, porta ad ulteriori possibilità di forma. In primo luogo avremo il duplice, e basilare, sviluppo in forma chiusa e in forma aperta. Da un lato la divaricazione aperta dei corpi in opposizione, a partire da un nucleo centrale di comune origine, dall'unione plastica generativa che così diventa principio attivatore del movimento.
Dall'altro, la perfetta e totale specularità porterà alla figura plastica del nastro di Moebius che, in questa chiave di lettura, è da intendersi come la rappresentazione astratta del capovolgimento della forma su se stessa per l'intera rotondità dello spazio intorno, cioè per 360°. Entrambe queste possibilità poggiano materialmente su una base visibile, e inscindibile, di materia modellata come un ceppo, un tronco da cui le forme plastiche, che si alzano nell'aria, attingono stabilità e slancio. L'elemento volante aperto, s'inoltra flessuoso nello spazio come ali, come veste di Nike nuota nel vuoto, portato dalle correnti del vuoto, tenuto dal groppo da cui si snoda. L'elemento chiuso si unisce perennemente a se stesso come un nastro mai reciso, venuto dalla massa unita, dal totoconvesso primario. Al suo interno è aperto: accoglie il vuoto come un turbine lento, ritmato dalla doppia torsione, come il lavoro rotondo di uno spigolo che colpisca il pieno sino ad annullarlo, nell'armonia delle leggi plastiche. Lo spigolo elimina la materia, le fa cambiare corso, la costringe a farsi forma e a rivelare la natura della sua qualità plastica.

Giuseppe Greco rappresenta - mette in forma - l'essenza del modellare. La materia avanza verso la forma: il pensiero suscita, il gesto assiduo plasma, essi rivelano, uniti, la legge formativa primaria del processo figurativo. In controluce a Psiche potemmo riconoscere l'equilibrio dell'estendersi della massa leggera nel vuoto, laddove il suo dinamismo si propaga, del «Mercurio» del Giambologna. Nel nastro di Moebius potremmo intravvedere l'infinito mistero delle allegorie temporali michelangiolesche della Cappella medicea, la loro lenta torsione di massa che si fa figura, il loro volgere oppositivamente i corpi nell'avvicendarsi ciclico del tempo.

Il modellare per Giuseppe Greco è mirato alla conoscenza, alla rivelazione delle leggi plastiche che non provengono da lui stesso, da un calcolo della sua mente, ma che egli provoca all'interno della massa plastica. Il pensiero che modella la forma è nelle mani dell'artista che asseconda l'unione tra la materia e lo spazio: in questo senso egli è profondamente classico. I greci sentivano che la forma proveniva dell'interno e si manifestava nella superficie «Scavata nell'aria» modellando le forme del corpo.

Nell'opera di Giuseppe Greco è la mimesi della legge; egli porta la forma sino alle conseguenze più estreme, sino al luogo del perfetto contrario: così facendo la rivela in tutta la sua purezza e la sua segreta potenza.


Venezia, gennaio 1992
Virginia Baradel

 
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